The Song Remains The Same

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ZAPPA: il film

Per raccontare Frank Zappa non bastano certamente le due ore di questo interessante documentario di Alex Winter e nemmeno le immagini, in parte inedite, raccontano qualcosa in più rispetto a ciò che gli zappofili già hanno letto sulle numerose biografie del genio di Baltimora o visto negli innumerevoli dvd o vhs commercializzati negli anni: in particolare 200 Motels, Baby Snakes, Roxy The Movie, A Token Of My Extreme, ampiamente usati qui.
Tuttavia, per chi ha conosciuto Zappa solo per sentito dire o attraverso i dischi più popolari – da Overnite Sensations a Sheik Yerbouti, da Hot Rats a Zappa In New York – è un buon modo per acquisire un ritratto abbastanza fedele dell’artista dai suoi esordi allo studio Z di Cucamonga fino all’epilogo di Yellow Shark.
Personaggio spesso intrattabile, Frank Zappa non lasciava sempre un buon ricordo nei suoi collaboratori: non è un caso che tra le testimonianze dei primi Mothers vi siano solo quelle del sassofonista Bunk Gardner (la più estesa per quel primo periodo) e del polistrumentista Ian Underwood; di Mark Volman e Howard Kaylan, per la riedizione delle Mothers dei primi anni ’70; di Steve Vai, uno dei pochissimi chitarristi in grado di suonare le parti di Zappa esattamente come le aveva immaginate il compositore e di Scott Thunes, ultimo bassista della band che esplose a fine anni ’80 per dissidi interni causati, si dice, probabilmente da lui stesso, per l’ultima fase della carriera.
Particolarmente interessante e toccante è la testimonianza di Ruth Underwood, grandissima percussionista, una delle pochissime musiciste che rimase legata da affettuosa e sincera amicizia a Zappa sino alla fine: sentirla eseguire The Black Page, straordinaria composizione originariamente solo per percussioni, al pianoforte, è uno dei momenti musicali più alti di tutto il film, assieme all’ultimo quarto d’ora di riprese delle prove e delle esibizioni orchestrali con l’Ensemble Modern, il canto del cigno per l’autore di Freak Out e Joe’s Garage, che di lì a poco, a causa di una recrudescenza del cancro alla prostata che l’aveva colpito, ci avrebbe lasciato il 4 dicembre 1993 a soli cinquantatre anni.
La vita familiare, quella probabilmente meno conosciuta, è fotografata dalle parole della moglie Gail (scomparsa nel 2015), della figlia Moon Unit e da Pamela des Barres, ex groupie e da sempre amica di famiglia.
Qui il trailer.

Giulio Cancelliere

PAOLO CONTE – VIA CON ME

Ci sono artisti presenti in maniera impressionante nel nostro immaginario, di cui quasi non si conoscono le fattezze e la voce, esclusive di una ristretta cerchia di fedeli ricercatori per professione o passione. È “la parsimonia del personaggio”, come la definisce Roberto Benigni nel suo peana appassionato e ironico che gli dedica. Eppure basta evocare un oleandro e un baobab, un treno dei desideri e e dei pensieri, o, per i più esperti, un tinello maron, un impermeabile su cui piove bene, il Mocambo, la Topolino amaranto, per capire che si sta parlando senza equivoci di Paolo Conte, autore e avvocato (una cosa non escluda l’altra), talmente fedele alla giurisprudenza, da essere diventato anche cantante per “difendere” le proprie canzoni, fino a un certo punto della carriera, scritte solo per altri interpreti come Adriano Celentano, Caterina Caselli, Bruno Lauzi, Enzo Jannacci.
A metà anni 80, poi, il successo internazionale, partito dalla Francia, dove quasi nessuno capisce le parole delle sue canzoni, ma tutti ne percepiscono lo spirito, la vibrazione, la malinconica umanità, espresse con un’eleganza e signorilità che non ha eguali nel panorama musicale europeo.
Mai come in questo docu-film realizzato da Giorgio Verdelli (già regista dell’ottimo Il Tempo Resterà su Pino Daniele del 2017) Paolo Conte si racconta: dall’infanzia col fratello Giorgio (pure avvocato e cantautore, ma, se possibile, ancora più defilato) col quale esordisce musicalmente come vibrafonista, poi chitarrista e infine pianista, sino ai trionfi più recenti.
La voce narrante di Luca Zingaretti collega i ricordi personali di Conte con le testimonianze di chi lo ha incontrato, conosciuto, incrociato professionalmente come Vinicio Capossela, Caterina Caselli, Francesco De Gregori (che assieme a Dalla ne “rovinò” Un Gelato Al Limon durante il tour Banana Republic, salvo poi chiedere scusa all’autore), Stefano Bollani, Pupi Avati, Luisa Ranieri, Renzo Arbore, Paolo Jannacci (toccante il ricordo dell’amicizia col padre), Vincenzo Mollica, Isabella Rossellini, Guido Harari, Cristiano Godano, Giovanni Veronesi, Lorenzo Jovanotti, Jane Birkin (unico duetto della carriera di Conte), Patrice Leconte, Peppe Servillo in un viaggio nel tempo a bordo di quella Topolino Amaranto, che, dai vigneti dell’astigiano, l’ha portato fino all’Olympia di Parigi.
Non mancano lunghi inserti musicali ripresi da numerosi concerti in Italia e all’estero: Paolo Conte ama circondarsi di impianti orchestrali ampi e articolati, tra chitarre, percussioni, sezioni d’archi e fiati, che possano efficacemente pennellare con le giuste tinte (è anche pittore) le sue musiche influenzate da jazz, blues, folk, tango, habanera, milonga, rimescolate con sentimento, ironia e senza mai prendersi troppo sul serio, perché “si sbaglia(va) da professionisti” e “fuori piove un mondo freddo”.
Qui il trailer.

Giulio Cancelliere

ROCKETMAN

Ho passato molti anni (relativamente alla mia età musicale che coincide quasi con quella anagrafica) ignorando Elton John. Sostanzialmente mi era indifferente. Da ragazzino lo incrociai con Crocodile Rock, era il 1973, e i miei ascolti erano già una zuppa densa e ribollente di Led Zeppelin e Deep Purple, Black Sabbath e Pink Floyd, Genesis, Jethro Tull e Uriah Heep, Emerson, Lake & Palmer e Yes, figurarsi se quel rock ’n’ roll anni ’50 martellato sul piano e quel falsettino sul ritornello potevano impressionarmi. I compagni di scuola insistevano a sottopormi album come Don’t Shoot Me I’m Only the Piano Player, Goodbye Yellow Brick Road, Captain Fantastic and the Brown Dirt Cowboy, dalle copertine fantasiose e divertenti, ma era il contenuto che non mi stimolava: erano solo “canzonette”. Non avevo ancora imparato e capito il talento che ci vuole a scriverle. Perché scrivere una bella canzone è una magia che non tutti i compositori riescono a realizzare: potrai anche saper architettare un poema sinfonico di quaranta minuti, una suite progressive lunga una facciata di lp, una rilettura lunare di Mussorgsky o Ginastera, ma i quattro minuti scarsi di Your Song non è detto che siano alla tua portata. La capacità di condensare in una manciata di secondi la forte emozione che una canzone riesce a suscitare è di pochi eletti e non ha a che fare, o meglio, non è direttamente proporzionale al grado di istruzione musicale che il compositore è riuscito a raggiungere. Non basta la tecnica – che pure esiste per scrivere canzoni – altrimenti tutti gli studenti di architettura laureati a pieni voti sarebbero Le Corbusier o tutti i diplomati all’Accademia sarebbero De Chirico, tutti i diplomati al Conservatorio sarebbero Stravinsky e così via. È questione di talento: che va certamente coltivato, ma che nasce non si sa bene dove e quando, eppure da qualche parte germoglia e cresce e, se non viene estirpato per i casi della vita, prima o poi fruttifica. Senza contare i moltissimi casi in cui i talenti si sono accoppiati e i germogli intrecciati, regalandoci i frutti migliori: Lennon-McCartney, Jagger-Richards, David-Bacharach, Gershwin-Gershwin, Rodgers-Hammerstein, Mogol-Battisti, Buscaglione-Chiosso, Gaber-Luporini, Elton John-Bernie Taupin). Per fortuna nel tempo ho incontrato persone, una in particolare, che me l’ha fatto capire e oggi posso godere di molta più musica di prima.
Detto questo, ieri sono andato a vedere Rocketman, il film biografico su Elton John diretto da Dexter Fletcher e interpretato da un ottimo Taron Egerton, che, guarda caso, aveva già prestato la voce nel film d’animazione Sing – era il gorilla Johnny – cantando un pezzo di Elton John.
Personalmente non amo il genere biografico, preferisco giudicare le opere di un artista, piuttosto che informarmi sulle sue preferenze sessuali, se tradisce il partner e con chi, se fa uso di sostanze illegali o legali, se scrive canzoni appeso al lampadario o sul fondo di una piscina. Tuttavia la storia raccontata in Rocketman, nonostante segua un percorso cronologico, dall’infanzia all’adolescenza, dai primi successi all’esplosione del mito in tutto il mondo, si prende parecchie libertà e sul filo delle canzoni, percorre soprattutto il sentiero psicologico dell’artista inglese, a cavallo di una macchina da presa che si muove spericolata attorno al personaggio indagandone ogni azione, espressione, sfuriata, esaltazione poetica.
Rocketman è quasi un musical, ma che tocca temi seri e delicati: il rapporto con i genitori, l’incomunicabilità, l’identità sessuale, il pregiudizio, la musica come valvola di sfogo, il successo che ti porta tanto in alto da non sapere più come scendere. Lo stesso Elton John, assieme al marito David Furnish, è intervenuto nella produzione, a garanzia di un prodotto altamente spettacolare, che forse non dice tutta la verità (sulla locandina originale si avverte: based on a true fantasy), ma che cattura l’attenzione, nonostante le due ore piene di durata. E poi: sono solo “canzonette”.

Giulio Cancelliere

Mia Martini: Io Sono Mia

I biopic sembrano un’invenzione moderna, ma esistono da quando c’è il cinema (Napoleon di Abel Gance è del 1927, il primo lungometraggio su Giovanna d’Arco è del 1913). Ken Russell ne creò un genere personalissimo con Liszt, Mahler, Tchaikovsky, Rodolfo Valentino, travalicando la realtà, trasformandola in visione.
Eppure i biopic, nonostante le esigenze di sceneggiatura costringano ad omettere, sintetizzare, selezionare fatti, eventi e sentimenti, scontentando spesso i fan e non informando esaustivamente i semplici spettatori, hanno un pubblico piuttosto fedele, basti pensare a quante “fiction” siano state prodotte per la televisione negli ultimi decenni. Se poi si tratta di musicisti è il cinema a farla da padrone e il successo di Bohemian Rhapsody è solo l’esempio più recente.
Ora cinema e televisione si sono associati e già l’anno scorso hanno partorito quel Principe Libero che raccontava un tratto di vita artistica e privata di Fabrizio De André. Dato che la squadra vincente non si cambia, Rai e Nexo Digital ci riprovano con lo sfruttamento multi-piattaforma (il passaggio al cinema per tre giorni e poi la trasmissione in tv dopo qualche settimana) con un altro personaggio tra i più controversi e, per certi aspetti, di ancora più difficile lettura.
Il corpo di Mia Martini fu trovato il 14 maggio del 1995 nella sua casa di Cardano al Campo, in provincia di Varese, ma la morte risaliva a due giorni prima. In realtà Mimì, come era affettuosamente chiamata dagli amici e dai fan, era morta già almeno un paio di volte, artisticamente parlando, a causa di un ambiente musicale che non accettava il suo desiderio di indipendenza e autonomia artistica e che la espulse come un corpo estraneo col sistema della maldicenza per oltre un decennio, fino al 1989, quando tornò trionfalmente a Sanremo con Almeno Tu Nell’Universo, una canzone scritta ventisette anni prima, all’epoca di Piccolo Uomo, da Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio. Ma non bastò, evidentemente.
Mia Martini rivive ora nel film Io Sono Mia grazie a un’ottima Serena Rossi che le restituisce voce e fisicità con un’efficacia straordinaria.
Il film è diretto da Riccardo Donna e sceneggiato da Monica Rametta, che si è avvalsa della consulenza di Loredana e Olivia Bertè (sorelle di Mia), oltre che, presumibilmente, della testimonianza di amici e persone che l’hanno conosciuta e frequentata.
L’espediente narrativo escogitato per il lungo flashback che anima il film è un’intervista non cercata, ma poi pretesa, da parte di una svogliata giornalista (Lucia Mascino) inviata al festival dell’89 per incontrare Ray Charles (poi il pezzo lo farà un collega), che si trova di fronte a una Mia Martini altrettanto annoiata e disillusa, ma che comincia a raccontarsi: dalle prime passioni musicali adolescenziali, osteggiata da un padre autoritario e manesco, al trasferimento a Roma con madre e sorelle per provare ad avviare una carriera. Fino a quando non viene notata in un jazz club dall’impresario Alberigo Crocetta che le apre le porte dell’industria discografica e le consente di farsi conoscere, apprezzare, premiare (vince due Festivalbar di seguito e innumerevoli altri riconoscimenti internazionali). Ma col successo – forse a causa della vendetta di un impresario sdegnosamente rifiutato da Mimì (lei stessa, in una intervista ad Epoca del 1989 ne fece nome e cognome, ma nel film indicato come Tino Notte) – nasce anche la famigerata nomea di iettatrice, che, da sussurro quasi scherzoso, diventa letteralmente “un rombo di cannone”, fino a oscurarne la splendida voce e la luminosa stella. Non bastasse, una vita sentimentale turbolenta (Ivano Fossati ha preteso di non essere nemmeno citato nel film, così come Renato Zero) rappresentata simbolicamente dalla storia d’amore fittizia col fotografo Andrea, un carattere che accetta a fatica i compromessi, artistici e no, il rischio di perdere la voce a causa di noduli alle corde vocali, che la costringono dopo un’operazione a rieducare il proprio strumento, non fanno che minarne l’equilibrio psicofisico fino a temere di non rimettere assieme i cocci della propria vita, artistica e umana.
Il regista Riccardo Donna, con un passato da musicista, ha operato una ricostruzione meticolosa dell’ambiente musicale degli anni ’70 e ’80, con strumenti e suoni d’epoca (tutti i pezzi che si sentono nel film sono stati registrati ex-novo con apparecchiature analogiche) e persino le copertine dei dischi e le locandine dei concerti mostrate, ristampate per l’occasione, ritraggono il volto dell’attrice.
Ma dicevamo di Serena Rossi, che si è trasformata in Mimì apparentemente senza sforzo, in virtù di una voce potente ed espressiva (ovviamente, ricantando alcuni dei suoi successi non ha potuto riprodurre il “graffio” post-operatorio degli anni ’80 e ’90, tuttavia non se ne avverte la mancanza), ma anche di una capacità di entrare nel personaggio vivendolo, senza tentare di imitarlo, con una naturalezza sorprendente: certi sguardi di traverso, il modo di muovere le mani, di sorridere, di tenere in braccio il mitico cagnolino Movie, i suoi cento volti incorniciati dai lunghi capelli biondi di Piccolo Uomo e Minuetto fino ai ricci neri di Almeno Tu Nell’Universo, sono quelli di Mimì.
Personaggi di fantasia ed emblematici si mescolano a quelli veri: Bruno Lauzi, Franco Califano, Crocetta, il discografico Roberto Galanti, l’amica fedelissima Alba, Charles Aznavour, Giuseppe Berté, il padre-padrone col quale parve fare pace dopo anni di lontananza e conflitto di sentimenti e, naturamente, Loredana, interpretata da un’estrosa Dajana Roncione.
Le omissioni sono tante, come già sottolineato – i salti temporali, le cadute e i tentativi di rialzarsi, gli incontri con autori e produttori che tentano di rilanciarla nel suo decennio più nero (Shel Shapiro, ad esempio) sono voragini aperte nella storia di questa grande artista – ma la produzione, firmata dalla Eliseo Fiction di Luca Barbareschi con Rai Fiction, ha cercato di restituire l’essenza di un personaggio complesso, contraddittorio, coraggioso, ma estremamente fragile, frantumatosi contro il muro del pregiudizio.
Il film sarà al cinema il 14-15-16 gennaio. In televisione sarà trasmesso a febbraio.
Qui l’elenco delle sale selezionate e il trailer.

Giulio Cancelliere

(ph Bepi Caroli)